Bisogna lasciare gli altri ai loro processi di comprensione.
Bisogna lasciare che facciano il loro personalissimo dolore.
Bisogna permettere a ciascuno di attraversare il proprio fuoco,
il ponte pericolante delle proprie scelte maldestre senza correre ai ripari ad ogni scricchiolio,
come si permette a un bambino di cadere se vogliamo che impari a camminare: anche quando lo vediamo barcollare ci tappiamo la bocca, perchè la nostra allerta lo farebbe spaventare e cadere di certo.
Spesso usiamo la nostra paura come un ricatto, per impedire all’altro di esistere e sbagliare.
L’abitudine all’interventismo dentro la vita altrui con la scusa: “Io volevo solo aiutarti”, nasconde diversi problemi.
Abbiamo il problema di non saper reggere il dolore degli altri.
Reggere il dolore significa scegliere l’impotenza per lasciare all’altro lo spazio di manifestare la sua potenza quando sarà il momento.
Quando sarà il momento non lo decidi tu, non lo puoi prevedere.
Reggere il dolore di un altro significa restare inutili e insieme restare vicini.
Essere e non fare,
astenendosi dalla tentazione di dimostrare il proprio valore dentro l’abisso di un altro.
Abbiamo il problema di voler spiegare all’altro quello che non vede, dichiarandoci di fatto sapienti e illuminati dentro il buio altrui.
Abbiamo altresì il problema di non saper tacere,
di avere l’urgenza di dover avvisare l’altro,
di volerlo precedere con le nostre istruzioni di vita, piene di errori che usiamo come teoremi per dimostrare che abbiamo ragione.
A volte la saggezza trova rifugio dentro poche e precise parole che possiamo pronunciare solo se l’altro davvero ce lo sta chiedendo.
Raramente l’altro vuole i nostri teoremi.
Spesso ci viene richiesta una vicinanza discreta.
Silenziosa.
L’amore in fondo è questa cosa qui:
esserci.
– Manuela Toto –