Satyagraha: la forza della verità

Gandhi è stato uno dei pionieri e dei teorici del satyagraha, un termine coniato da lui stesso, cioè la resistenza all’oppressione tramite la disobbedienza civile di massa che ha portato l’India all’indipendenza.

La parola satyagraha significa “forza della verità” e deriva dai termini in sanscrito satya (verità), la cui radice sat significa “Essere”, e Agraha (fermezza, forza).

Il compito del satyagrahi, cioè del rivoluzionario non-violento, è proprio quello di combattere la himsa – la violenza, il male, l’ingiustizia – nella vita sociale e politica, per realizzare la Verità. Egli dà prova di essere dalla parte della giustizia mostrando come la sua superiorità morale gli permetta di soffrire e ad affrontare la morte in nome della Verità:

La dottrina della violenza riguarda solo l'offesa arrecata da una persona ai danni di un'altra.
Soffrire l'offesa nella propria persona, al contrario, fa parte dell'essenza della non-violenza e costituisce l'alternativa alla violenza contro il prossimo

L’ingiusto infatti afferma i suoi interessi egoistici con la violenza, cioè procurando sofferenza ai suoi avversari e, nello stesso tempo, provvedendosi dei mezzi (le armi) per difendersi dalle sofferenze che i suoi avversari possono causargli. La sua debolezza morale lo costringe ad adottare mezzi violenti per affermarsi. Il giusto, invece, dimostra, con la sua sfida basata sulla nonviolenza (ahimsa) che la verità è qualcosa che sta molto al di sopra del suo interesse individuale, qualcosa di talmente grande e importante da spingerlo a mettere da parte l’istintiva paura della sofferenza e della morte. Rifacendosi alle parole dei Vangeli si potrebbe dire che, di fronte all’ingiustizia perpetrata, il combattente non-violento “porge l’altra guancia”, affermando in questo modo la bontà della sua causa, cosa che l’ingiusto non potrebbe mai fare.

Come la guerra è l’azione suprema dell’uomo che segue la via della himsa, della violenza, così il satyagraha è “l’equivalente morale della guerra”.


La forza della Verità

Il combattente non-violento sfida l’ingiusto a mani nude, senza armi, e si espone alle sue rappresaglie opponendo solo la forza della Verità (da cui l’espressione “forza della verità”). È la capacità di soffrire senza offendere, senza imporre con la forza la propria volontà, senza infliggere sofferenza, senza distruggere o uccidere e senza nemmeno difendersi che rappresenta, secondo Gandhi, la più potente dimostrazione pratica della validità della causa del ribelle non-violento, il suo essere dalla parte della Verità:

La sofferenza è la legge dell'umanità, così come la guerra è la legge della giungla. Ma la sofferenza è enormemente più potente della legge della giungla, ed è in grado di convertire l'avversario e aprire le sue orecchie alla voce della ragione... Quando volete ottenere qualcosa di veramente importante non dovete solo soddisfare la ragione ma anche toccare i cuori. L'appello della ragione è rivolto al cervello, ma il cuore si raggiunge solo attraverso la sofferenza. Essa dischiude la comprensione interiore dell'uomo. La sofferenza, e non la spada, è il simbolo della specie umana.

Coraggio, non codardia

È meglio essere violenti, se c'è violenza nei nostri cuori, piuttosto che indossare l'aureola della non-violenza per coprire la debolezza.
La violenza è sicuramente preferibile alla debolezza. C'è speranza per un uomo violento di diventare non violento. Non c'è questa speranza per i deboli

Nei suoi scritti Gandhi dovette spesso difendersi da coloro che irridevano e ridicolizzavano le sue teorie, considerandole una manifestazione di imbelle “buonismo”, affermando come il non-violento fosse soltanto un individuo che non combatte per paura di subire, che nasconde dietro l’ahimsa il poco coraggio e l’istinto di sopravvivenza. In realtà l’atteggiamento del satyagrahi è completamente opposto: egli affronta l’ingiustizia senza tirarsi indietro, senza desistere nella sua azione e affrontando ogni sopruso che si presenta:Gandhi insisteva spesso sulla distinzione tra la nonviolenza del debole, che consiste nel subire passivamente e vigliaccamente l’oppressione o nell’opporsi a essa con la semplice “resistenza passiva”, e la nonviolenza del forte: quest’ultima è il satyagraha, l’attiva e coraggiosa ribellione all’ingiustizia. Per lui i satyagrahi dovevano essere dediti anima e corpo alla causa rivoluzionaria. Gandhi non predicava la nonviolenza come forma di passività e rassegnazione all’ingiustizia, perché assoggettarsi vigliaccamente all’oppressione significa annientare la propria umanità. Di fronte all’ingiustizia la via indicata dall’ahimsa è invece quella di lottare per la verità, facendo di tutto per cambiare ciò che è sbagliato (senza ricorrere alla violenza).

Nessun uomo può essere attivamente non-violento e non ribellarsi contro l'ingiustizia dovunque essa si verifichi.

Gandhi affermò anche che:

Anche di fronte ai rischi maggiori, senza curarsi del male che gli verrà fatto, il rivoluzionario non-violento prosegue nella sua azione poiché ciò che gli dà il coraggio di lottare è la convinzione nel trionfo della giustizia e della verità.
La non-violenza è infinitamente superiore alla violenza, tuttavia nel caso in cui l'unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza.

«Hitler uccise cinque milioni di ebrei. È il più grande crimine dei nostri tempi. Ma gli ebrei avrebbero dovuto offrirsi al coltello dei macellai, avrebbero dovuto gettarsi in mare dalle scogliere… Avrebbe risvegliato il mondo e il popolo tedesco.»

Queste parole vengono così commentate da George Woodcock, autore di una monografia su Gandhi: Questa dichiarazione è stata letta da molti come contraddittoria e svilente l’intera teoria dell’ahimsa, dal momento che sembrerebbe che queste parole giustifichino il ricorso, in casi limite, alla violenza. In realtà in questo caso Gandhi voleva solamente ribadire un concetto molto semplice: il combattente non-violento non deve agire per paura, poiché la codardia non è ammissibile, in quanto considerata moralmente peggiore della violenza stessa. Il vero satyagrahi ha tra le sue caratteristiche un grande coraggio, che lo spinge anche incontro alla morte, e quindi rifugge in ogni caso la violenza. A riprova di questo può essere utile citare una delle affermazioni che hanno fruttato a Gandhi più critiche, per l’asprezza delle parole, ma che rende assai bene la grandezza e il coraggio che, secondo il Mahatma, occorrono per portare avanti la causa non-violenta:

«Occorre ricordare che Gandhi non si preoccupava tanto della morte, quanto del modo di morire. “La morte non è mai dolce,” disse in un’altra occasione “nemmeno se affrontata per un alto ideale. Rimane indicibilmente amara, eppure può rappresentare la più alta affermazione della nostra individualità.” Era in quest’ottica che pensava agli ebrei; se dovevano morire, pensava, era meglio che se ne andassero affermando la propria individualità nella resistenza non violenta, piuttosto che si lasciassero condurre al macello come bestiame.»

In conclusione e nella personale ottica del messaggio di Human Design

Violenza, da dizionario è una forza impetuosa, incontrollata = inconsapevole.

La sofferenza nasce dalla confusione tra Sé e Non Sé.
Nell’ignoranza della separazione interna ed esterna.
Dove ogni forma di identificazione col Non Sé è una violenta distorsione alla nostra natura che si compensa e manifesta nel riversare la violenza all’esterno.
Poiché il Non Sé è violenza non può essere fermato con la violenza che lo può solo alimentare.
Così come dove c’è la luce non ci può essere il buio, solo il Sé può far cessare il Non Sé.
La violenza si può fermare individualmente solo con un vero profondo un lavoro interno di ricordo di Sé.
"Oh! Signore, fa di me uno strumento della tua pace:
dove è odio, fa ch'io porti amore..."
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